Tra gli interrogativi di fine anno che i Comuni si trovano ad affrontare, incombe la soluzione dell’enigma imposta comunale sulla pubblicità scaturito dalla sentenza della Corte costituzionale 15/2018. La vicenda si fa più complessa in sede di predisposizione di bilancio 2019, momento nel quale l’ente locale deve decidere sulla previsione di entrata, oltre a dover affrontare le prime richieste di rimborso.
La questione ha origine nelle modifiche introdotte dal dl 83/2012 che, con un colpo di spugna, ha cancellato il comma 10 dell’art. 11 della legge n. 449/97, disposizione utilizzata da gran parte dei comuni per incrementare la tariffa prevista dal d lgs 507/93 di disciplina del tributo in questione.
Il testo prevedeva che:
“10. Le tariffe e i diritti di cui al capo I del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, e successive modificazioni, possono essere aumentati dagli enti locali fino ad un massimo del 20 per cento a decorrere dal 1 gennaio 1998 e fino ad un massimo del 50 per cento a decorrere dal 1° gennaio 2000 per le superfici superiori al metro quadrato, e le frazioni di esso si arrotondano al mezzo metro quadrato” .
Benchè si trattasse di una mera facoltà, molti enti hanno colto l’occasione per applicare l’incremento in modo diverso, aumento che restava comunque classificato come maggiorazione distinta rispetto alla tariffa base, nonostante fosse concretamente applicata come una tariffa finale quasi irreversibile. Probabilmente questo passaggio è quello che più ha disorientato i comuni e i concessionari iscritti all’albo, storicamente esperti del tributo minore per eccellenza, caratterizzato da larga esternalizzazione.
Lo strappo causato dalla silenziosa abrogazione avvenuta nel 2012 è all’origine dell’intervento normativo di interpretazione scritto per sanare la lacuna normativa. La legge 208/2005, al comma 739 contiene infatti una norma di interpretazione autentica retroattiva che mira a chiarire l’ambito applicativo dell’art. 23, comma 7 del dl n.83/2012 di abrogazione della facoltà di aumento
L’articolo 23, comma 7, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, nella parte in cui abroga l’articolo 11, comma 10, della legge 27 di-cembre 1997, n. 449, relativo alla facoltà dei comuni di aumentare le tariffe dell’imposta comunale sulla pubblicità, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 1 della legge 27 luglio 2000, n. 212, si interpreta nel senso che l’abrogazione non ha effetto per i comuni che si erano già avvalsi di tale facoltà prima della data di entrata in vigore del predetto articolo 23, comma 7, del decreto-legge n. 83 del 2012.
La conclusione immediata che ogni lettore esperto della materia può trarre dalla norma di interpretazione, al di là del condivisibile imbarazzo normativo per una norma che divide i comuni tra chi si era avvalso della maggiorazione entro una certa data e chi non ne aveva fatto uso, è la salvezza delle delibere di approvazione della maggiorazione adottate entro il 26 giugno 2012 con conseguente consolidamento della tariffa maggiorata. Ma il giudice costituzionale non è stato dello stesso avviso quando con la sentenza n. 15/2018 ha ritenuto non corretta l’interpretazione dell’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015, secondo cui esso ripristinerebbe retroattivamente la potestà di applicare maggiorazioni alle tariffe per i Comuni che, alla data del 26 giugno del 2012, avessero già deliberato in tal senso. La disposizione, invece, si limiterebbe a precisare la salvezza degli aumenti deliberati al 26 giugno 2012, tenuto conto, tra l’altro, che a tale data ai Comuni era stata nuovamente attribuita la facoltà di deliberare le maggiorazioni. Era dunque ben possibile che essi avessero già deliberato in tal senso. Di qui la necessità di chiarire gli effetti dell’abrogazione disposta dal d.l. n. 83 del 2012, precisando che la stessa non poteva far cadere le delibere già adottate e che il 26 giugno del 2012 era il termine ultimo per la validità delle maggiorazioni disposte per l’anno d’imposta 2012.
Insomma, la norma di interpretazione è costituzionalmente legittima perché si interpreta in modo restrittivo, che non corrisponde all’effetto estensivo desiderato dai comuni.
Nulla dice il comma 739, invece, sulla possibilità di confermare o prorogare, successivamente al 2012, di anno in anno, le tariffe maggiorate.
L’interpretazione che fa così crollare le maggiorazioni almeno dall’anno 2013 e successivi è stata avallata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze con la risoluzione 2/DF del 14 maggio 2018, che conferma la non applicazione della maggiorazione.
Conseguenza concreta della autorevole decisione costituzionale sono le domande di rimborso presentate dai contribuenti (in primis i gestori di impianti pubblicitari) sulle quali i comuni, in questa fase, cercano di prendere tempo ricorrendo a istituti ponte diversi: il silenzio rifiuto, il reclamo, il rinvio e la conciliazione.
- Il silenzio rifiuto permette di ricorrere contro il silenzio significativo dell’ente entro il termine di prescrizione del tributo (cinque anni), in luogo dei 60 giorni canonici previsti per il ricorso contro il provvedimento di rigetto notificato dall’ente.
- Il reclamo/mediazione previsto dall’articolo 17 bis del dl lgs 546/97 sta rappresentando il momento amministrativo nel quale il comune motiva l’impossibilità di assumere una decisione in attesa di paventati chiarimenti normativi.
- Il rinvio dell’udienza in caso di trattazione del ricorso potrebbe essere chiesto quanto meno una volta richiamando gli emendamenti presentati ai diversi decreti e manovre per la soluzione della vicenda.
- La conciliazione può essere considerata come ultimo strumento per assumere la decisione, anche eventualmente in secondo grado di giudizio.
Il bilancio e la previsione di entrata. Ma in questa fase transitoria a tenere banco è la decisione temporalmente più vicina da adottare: mantenere il gettito dell’entrata con la maggiorazione oppure procedere alla disapplicazione della maggiorazione con nuova delibera di determinazione delle tariffe?
Tecnicamente, se partiamo dall’assunto che la maggiorazione è stata soppressa, il gettito dell’imposta 2019 è decurtato della maggiorazione con una motivazione che trova fondamento in una nuova delibera di determinazione delle tariffe, ancora di competenza della giunta comunale. La mancata adozione della delibera, infatti, attiva il comma 169 dell’articolo 1 della legge 296/2006 che conferma tacitamente l’ultimo atto adottato comprensivo della maggiorazione, e per questo a rischio di impugnazione.
Emendamenti in corso. Tra gli emendamenti presentati in sede di decreto fiscale e di legge di bilancio 2019 compare la possibilità di introdurre una nuova maggiorazione, diversa dalla precedente “A decorrere dal 1°gennaio 2019, le tariffe e i diritti di cui al capo I del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, e successive modificazioni ed integrazioni, possono essere aumentati dagli enti locali fino ad un massimo del 50 per cento per le superfici superiori al metro quadrato e le frazioni di esso si arrotondano al mezzo metro quadrato.”
A maggior ragione troverebbe conferma la disapplicazione della vecchia maggiorazione e la necessità di intervenire con nuovo atto di giunta per sancirne la disapplicazione ovvero introdurre la nuova maggiorazione, qualora fosse approvato l’emendamento. Una ragione in più per prorogare sul 2019 la scadenza dell’imposta permanente, in attesa degli atti definitivi e sulla base dei quali decidere come gestire anche l’effetto collaterale prodotto sugli aggi dei concessionari nonchè sui contratti cosiddetti a canone che riversa ai comuni una bassa percentuale del tributo.
Aggiungiamo che il paventato e ormai sicuro sblocco della fiscalità locale permetterebbe di agire con altre due maggiorazioni incluse nel 507/93: la categoria speciale (art. 4 d. lgs 507/93) e la maggiorazione stagionale in caso di flussi turistici (art. 3 del d lgs 507/93).
IL CIMP. Altra soluzione oggetto di interesse per i comuni è la conversione del tributo in CIMP, condizionata sempre allo sblocco della leva fiscale. I comuni che già da tempo hanno adottato questa forma di prelievo non sono infatti interessati alla pronuncia 15/2018.
Si tratta di una interessante alternativa da valutare per applicare nuove tariffe di commisurazione del canone, che non assumono a riferimento quelle indicate dal d lgs 507/93 né l’abrogata normativa relativa alla maggiorazione.
L’articolo 62 del d lgs 446/97 consente il passaggio dal tributo comunale al canone secondo le prescrizioni contenute nella medesima norma. In ordine alla natura giuridica la Corte costituzionale, con sentenza 141/2009, ha decretato la caratteristica tributaria del prelievo, che trova così la stessa disciplina procedurale dei tributi locali.
Il passaggio a canone deve comunque tener conto delle disposizioni contenute nell’art. 62, comma 2, lettera d), del D.Lgs. n. 446 del 1997, che impone ai comuni che sostituiscono l’imposta comunale sulla pubblicità con il canone, di determinare la tariffa in modo da non eccedere di oltre il 25 per cento le tariffe stabilite per l’imposta sulla pubblicità, deliberate nell’anno antecedente all’adozione della delibera di sostituzione dell’imposta sulla pubblicità con il canone.
Il vincolo risale all’art. 10, comma 5, lettera b) della legge n. 448 del 2001, con l’obbligo per gli enti locali di rispettare il limite a partire dall’anno d’imposta 2002.
L’art. 7-octies del dl 7/2005 ha confermato il limite stabilendo inoltre che “con effetto per l’esercizio 2005, i comuni con proprie deliberazioni rideterminano, ove occorra, la misura del canone” nel limite massimo del 25 per cento, prevedendo, inoltre, a decorrere dall’anno 2006, l’adeguamento delle tariffe in base alla rivalutazione annuale sulla base dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai ed impiegati rilevato dall’ISTAT.
Dicembre 2018, Cristina Carpenedo
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